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Alla scoperta della gig economy, l’economia dei lavoretti

Alla scoperta della gig economy, l’economia dei lavoretti

Si può tradurre con “economia dei lavoretti”: stiamo parlando della gig economy, che pur ritagliandosi uno spazio sempre maggiore nel panorama attuale ancora non offre adeguate tutele ai lavoratori che la praticano.

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Avete mai sentito parlare di gig economy? Anche se non avete mai sentito questo termine, fidatevi, sapete bene di cosa stiamo parlando: potremmo tradurlo come “economia dei lavoretti” ed è una delle nuove forme di organizzazione dell’economia digitale. Si tratta in breve di prestazioni parcellizzate, piccoli lavoretti anche solo di pochi minuti affidati in genere a freelance e spesso gestiti da apposite piattaforme online. Qualche esempio concreto? Rientrano in questo schema le prestazioni offerte dai driver dei più noti servizi di consegna di pasti a domicilio, come Foodora e Deeliveroo, ma anche Uber e AirBnb.

 

Da dove deriva il termine “gig economy”?

Può sembrare strano, ma il termine proviene dal mondo del jazz, dove fin dai primi anni del 900 era usato per indicare l’ingaggio per una serata; da lì il suo significato si è allargato fino ad indicare qualsiasi tipo di lavoretto saltuario.

È però nel 2015 che il termine è entrato nell’uso comune, almeno negli Stati Uniti, grazie alla campagna elettorale di Hillary Clinton, che l’aveva definita anche “economia a richiesta”, ponendosi delle domande sulle tutele per i lavoratori.

 

Quali tutele per i lavoratori?

Proprio il tema delle tutele per i lavoratori rischia di essere un tasto dolente della gig economy. Uno dei problemi è che queste prestazioni, oltre che frammentate, sono anche dequalificate: nella maggior parte dei casi non sono richieste competenze o abilità particolari, quindi questi lavoratori sono spesso visti come un insieme di forza lavoro indistinta e generica, dove ogni individuo è sostituibile con molti altri.

In generale, poi, questo nuovo modello produttivo basato sull’intermediazione di piattaforme digitali e applicazioni avrebbero bisogno di un intervento legislativo che tuteli il lavoratore in un settore liberalizzato che non riesce a garantire non solo la stabilità del posto di lavoro, ma nemmeno una retribuzione dignitosa e un inquadramento fiscale trasparente e ben definito.

A questo proposito potrebbe costituire un precedente interessante la sentenza della Corte di Appello di Torino dell’11 gennaio 2019, che ex art. 2 D Lgs 81/2015. riconosce ai rider che effettuano le consegne il diritto a vedersi riconoscere l’importo maturato in base all’attività lavorativa effettivamente prestata a favore dell’app in base alla retribuzione diretta, indiretta e differita stabilita per i dipendenti subordinati del V livello CCNL logistica trasporto merci, senza però qualificarli come lavoratori subordinati.

Risulta in ogni caso evidente che la sola gig economy non riesce a garantire una retribuzione nemmeno lontanamente paragonabile a quella dei “classici” lavoratori dipendenti e autonomi; in genere i cosiddetti gigger sono persone che si trovano in uno stato di difficoltà lavorativa, studenti o dipendenti in cerca di una seconda fonte di reddito ad integrazione del proprio stipendio, che in molti casi viene considerato insufficiente o precario.

Sempre più spesso, però, a queste persone si affianca un numero sempre crescente di prestatori per i quali la gig economy rappresenta l’unica fonte di reddito.

I numeri del fenomeno in Italia e nel mondo (industrializzato)

Quello della gig economy è un fenomeno in forte e rapida ascesa in tutti i Paesi industrializzati. I dati Istat riguardanti l’Italia parlano chiaro: prima del 2010 le persone coinvolte in questo fenomeno erano meno di 100.000; nel 2011 erano già più che raddoppiate, arrivando a 215.000, mentre nel 2016 erano diventate un esercito di un 1.800.000 lavoratori. C’è da notare, però, che il lavoro accessorio considerato dalle statistiche Istat è solo quello che veniva retribuito con il sistema dei voucher, prima aboliti e poi reintrodotti nel 2017, quindi c’è una vasta fetta del fenomeno che sfugge a questo report.

Restando nel Vecchio Continente, e più precisamente in Gran Bretagna, un rapporto del 2017 parla di 1.600.000 persone coinvolte nella gig economy, tanto che l’ex Primo Ministro Theresa May aveva parlato della necessità di porre fine allo sfruttamento di massa di questa particolare tipologia di lavoratori.

Di ben altri numeri, come è normale, si parla negli Stati Uniti, dove le persone che lavorano saltuariamente grazie all’intermediazione di app e piattaforme online si stima che siano 4 milioni, e si pensa che siano destinati a raddoppiare entro il 2020.

 

Le differenze tra gig economy e sharing economy

A volte si tende a confondere gig economy e sharing economy, due fenomeni che, pur avendo dei punti di contatto, sono molto differenti. La prima, come abbiamo visto, è un modello di economia basato su un lavoro vero e proprio, mediato e organizzato tramite piattaforme online e svolto da freelance che prestano la propria opera , mentre la seconda prevede semplicemente la condivisione di risorse sottoutilizzate, che altrimenti verrebbero sprecate.

È la differenza che corre, tanto per fare un esempio concreto, tra Uber e Blablacar. Uber prevede che la propria auto venga utilizzata per offrire un servizio in modalità gig economy: il conducente viene pagato per portare un passeggero alla destinazione richiesta, in caso contrario la sua auto rimarrebbe in garage. Con Blablacar, che in questo esempio rappresenta la sharing economy, vengono semplicemente messi a disposizione dei posti auto liberi per una tratta che il guidatore effettuerebbe in ogni caso; trovando dei passeggeri con cui condividere il viaggio e le spese si ottimizzano semplicemente le risorse.

Insomma, pare che nei prossimi anni sentiremo parlare ancora, e in misura sempre maggiore, di gig economy: rappresenterà un vantaggio per i lavoratori e per l’economia in genere oppure una forma di sfruttamento, seppure “digitale”?

 

Francesca Scarabelli

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