Quante sono in Italia le donne che vorrebbero un’occupazione ma non riescono ad accedere al mercato del lavoro? Secondo il primo rapporto sull’occupazione delle donne in Italia e nei paesi del G20 pubblicato a settembre dall’Osservatorio permanente sull’Empowerment femminile di The European House Ambrosetti, il tasso di partecipazione femminile alla forza lavoro nel nostro Paese si attesta al 54,7%, contro la media del 59,3%. Le nazioni più virtuose in termini di donne occupate sono Germania, Canada e Australia, mentre sul fondo della classifica si trovano Turchia, Arabia Saudita e India.
Questo dato ha sofferto negli ultimi anni dell’emergenza pandemica: basti considerare che nel 2020 3 posti di lavoro persi su 4 erano occupati da donne, e che in migliaia hanno dato le dimissioni volontarie per inconciliabilità tra lavoro e gestione familiare.
Più preoccupante il dato relativo alle imprenditrici: insieme all’India, l’Italia è il Paese con la forbice più ampia tra imprenditori e imprenditrici. Anche le attività imprenditoriali avviate da donne hanno subito in maniera più severa le conseguenze della pandemia rispetto a quelle a guida maschile.
C’è qualche riscontro rassicurante con cui consolarsi: l’Italia ha guadagnato una posizione per quanto riguarda la condizione delle donne sul posto di lavoro e si piazza al quinto posto (con un punteggio di 90,9 su 100) tra i paesi del G20, dietro Francia, Australia, Spagna e Canada.
Un buon risultato ottenuto anche grazie a una legge “pionieristica”: la cosiddetta Golfo-Mosca, approvata nel 2011 e poi estesa alla fine del 2021, che impone ai Cda delle società quotate in borsa almeno un 40% di donne (o di uomini, se il maschile è il genere meno rappresentato) tra i suoi membri eletti. Solo nel 2022 in Europa è stata approvata una direttiva analoga. Un altro strumento importante è la legge Gribaudo, approvata a fine 2021, che modifica il codice delle pari opportunità tra uomo e donna in ambito lavorativo per ridurre il gender pay gap.
Restano comunque lontani da raggiungere i livelli di parità di genere presenti in Finlandia (83,5), Slovacchia (91,7) o Islanda, che certifica punteggio pieno. Una complicazione aggiuntiva è data dal fatto che solo il 26% dei Paesi al momento dispone di un sistema completo per monitorare gli stanziamenti di bilancio per le questioni di genere.
Malgrado le leggi applicate che abbiamo citato, i dati ci dicono che le donne occupano meno di una posizione manageriale su tre e che, malgrado la qualifica, spesso percepiscono uno stipendio più basso rispetto ai colleghi uomini a parità di qualifiche e lavoro svolto.
«Far emergere la disparità di genere nel lavoro e prenderne piena consapevolezza rappresenta un valore. In questo modo le aziende ne parlano e iniziano ad agire per ridurre il differenziale», sostiene Claudia Strasserra, Chief Reputation Officer di Bureau Veritas.
Questa azienda è leader a livello mondiale nei servizi di certificazione legati, tra gli altri, alla responsabilità sociale e alla parità di genere. Per di più, è una delle società pioniere del “Sistema di certificazione della parità di genere” introdotto dal PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza), ha l’obiettivo di accompagnare le imprese nel loro percorso verso il raggiungimento della gender equality sul posto di lavoro.
In che modo una certificazione può aiutare a superare il gender gap sui posti di lavoro?
La certificazione UNI PdR 125 è l’unica che permette di accedere agli sgravi sui contributi previdenziali oltre che a molti bandi e gare pubbliche che pongono attenzione alle parità di genere.
Mettersi nell’ottica di ottenere questo riconoscimento permette a un’azienda di ragionare sui temi della parità di genere, registrando i problemi esistenti al suo interno e prefiggendosi degli specifici KPI (Key Performance Indicators), sia quantitativi che qualitativi, allo scopo di superarli. Oltre al ritorno morale e alla costruzione di un ambiente di lavoro più equo e paritario, la possibilità di accedere agli sgravi contributivi è un obiettivo interessante per qualunque imprenditore.
Certificazione parità di genere: qual è l’iter attraverso il quale si può ottenerla?
Il processo per ottenere la certificazione è stringente, perché chiede all’organizzazione di lavorare in concreto su determinati obiettivi. La ottiene chi adotta un sistema di gestione, che prevede, tra l’altro, un piano strategico per migliorare le performance sulla parità di genere su diversi KPI.
È richiesto di fare uno sforzo non solo per allinearsi alla media nazionale attuale, ma viene richiesto di assumere una posizione virtuosa (ad esempio, una percentuale di donne dirigenti superiore a quella prevista dalla legge Golfo-Mosca), contribuendo quindi a migliorare le statistiche nazionali.
Ovviamente i livelli e gli obiettivi richiesti per la certificazione si adattano a seconda del settore in cui l’azienda opera. È necessario raggiungere un punteggio minimo – equivalente al 60% dei punti a disposizione – e mantenere o incrementare i risultati nel tempo. Viene infatti richiesto un impegno e un piano strategico articolato perché, per mantenere la certificazione, è necessario superare una verifica ogni dodici mesi.
Questo evita che l’azienda possa attivare delle politiche spot per il tempo necessario a ottenere il certificato, o bieche iniziative di pinkwashing.
Pinkwashing: di cosa si tratta?
Questo termine indica tutte le iniziative portate avanti da aziende e brand a favore di cause sociali relative al mondo femminile con il solo scopo di ottenere un ritorno economico e d’immagine. Un’impresa potrebbe fare campagne di comunicazione dichiarandosi a sostegno delle donne e delle proprie impiegate senza però adottare alcun tipo di misura che migliori l’ambiente di lavoro.
Un caso eclatante nel 2019 ha visto Nike chiamata in causa da alcune atlete che si sono viste tagliare le sponsorizzazioni anche del 70% quando hanno deciso di avere un bambino, costringendole a gareggiare anche in stato di gravidanza avanzata o forzando i tempi di recupero dopo il parto per non perdere i contratti. Le campagne “Just do it” e “Dream Crazy”, rivolte alle donne invitandole a non farsi fermare da niente, sono sembrate ipocrite visto il trattamento riservato poi alle professioniste.
La certificazione e l’azione di società poste alla verifica possono evitare che l’azienda annunci azioni e iniziative che non vengono poi messe in atto effettivamente o solo in minima parte rispetto a quanto dichiarato, valutando anche le performance.
Lotta al gender pay gap
Vista la quantità di contratti nazionali prevista dalla normativa italiana, molti stentano a credere che ci sia un’effettiva differenza nelle retribuzioni a seconda del genere, tuttavia gli studi confermano che nell’ambito privato in particolare il divario è facilmente percepibile.
Basti pensare che oggi un’azienda è considerata “virtuosa” se ha un gender pay gap inferiore all’8% e che oggi in Italia per ottenere la certificazione UNI/PdR 125 è sufficiente avere un divario inferiore alla media nazionale e di attestare la volontà di far scendere questa forbice con lo scopo finale di eliminarla.
In Italia il divario salariale medio si attesta al 20% (contro il 13% della media europea), che penalizza le lavoratrici fino al punto di allontanarle dal mercato del lavoro; è il caso di quelle madri che, dovendo sostenere spese per la cura dei figli superiori al proprio stipendio, rinunciano al posto di lavoro per dedicarsi alla famiglia.
Le disuguaglianze in termini di retribuzione crescono di pari passo con il livello di istruzione raggiunto: se tra i diplomati alle scuole professionali si attesta al 5,4%, il gender pay gap raggiunge il 30,4% tra i laureati fino ad arrivare al 46,7% tra chi ha conseguito un master di secondo livello.
Tra le donne che riescono a trovare un’occupazione molte devono accontentarsi di un lavoro a tempo parziale. Il part-time involontario sta diventando negli ultimi anni un fenomeno sempre più diffuso, in particolare per le donne e per i giovani, per cui chi vuole lavorare deve accettare un orario (e di conseguenza uno stipendio) ridotto. In questa situazione si trovano quasi 1,9 milioni di donne, ovvero il 61,2%: tre volte la media europea (21,6%).
Anche questa è una forma di pinkwashing: l’azienda annuncia di garantire una maggiore flessibilità per le sue lavoratrici in modo da potersi occupare di casa e bambini, senza però coinvolgere le dipendenti nella decisione, a prescindere che ne abbiano bisogno o meno.
A risentire delle disuguaglianze lavorative sono soprattutto le donne con figli. Nel 2021 per la fascia d’età compresa tra i 25 e i 49 anni l’occupazione era del 73,9%. Ma la percentuale scende a 53,9% per le donne con un figlio minore di sei anni. La situazione peggiora nettamente al Sud, dove solo il 35,3% ha un’occupazione, quasi la metà rispetto al Centro (62,7%) e al Nord (64,3%). All’interno dell’area euro la media delle donne con figli che lavora è del 71,6%.
Non a caso il Pnrr potrebbe aiutare a risollevare la situazione, grazie a un investimento del 20% delle risorse destinato a riequilibrare gli stipendi a favore delle donne.
Ridurre il gender gap non è solo una questione morale
Creare un ambiente di lavoro più sano e in cui tutti i lavoratori e le lavoratrici si sentano stimati e valorizzati, aumenta la redditività delle aziende, migliora anche la circolazione delle idee e varietà di proposte e incrementando anche l’innovazione.
Diversi studi hanno dimostrato come l’inclusione lavorativa delle donne non sia soltanto auspicabile dal punto di vista dei diritti, ma anche proficua. Secondo il Boston Consulting Group le aziende con almeno il 30% dei dirigenti donne hanno un aumento del 15% della redditività rispetto a quelle a guida esclusivamente maschile. L’Osservatorio permanente sull’empowerment femminile di Ambrosetti ha stimato che colmare il gender pay gap porterebbe a un impatto economico annuo pari al 14% del Pil dei paesi del G20.
Si tratta di un vero e proprio cambiamento culturale e richiederà sicuramente molto tempo. Malgrado ci sia la consapevolezza che non avverrà dal giorno alla notte, tuttavia per un’azienda riconoscere l’esistenza di un gap di genere e scegliere la strategia da intraprendere per risolverlo è già un notevole passo avanti.
Come ottenere la certificazione parità di genere
Il Sole 24Ore ha annunciato un webinar dedicato alla legge 162/2021 per spiegare agli imprenditori l’iter per ottenere la certificazione e i vantaggi che ne derivano. L’evento si terrà in streaming il 15 febbraio 2023 a partire dalle ore 11:00.
I temi della giornata:
- La legge 162/2021 e l’inserimento tra le misure del PNRR: che cos’è la Certificazione della Parità di Genere e quali i suoi vantaggi
- Parità di Genere: linee guida e processo di certificazione
- Come le imprese possono accedere ai servizi per la Certificazione. L’impegno del sistema camerale
- La Certificazione della Parità di Genere nei case history aziendali
Interverranno la Ministra per la Famiglia, la Natalità e le Pari Opportunità Eugenia Maria Roccella, che aprirà i lavori, il Direttore Generale di Accredia Filippo Trifletti e Antonio Romeo, Direttore Generale Dintec/Unioncamere
Per iscriversi all’evento si può andare sul sito dedicato: https://24oreventi.ilsole24ore.com/paritadigenere/