Nell’epoca in cui viviamo, in Italia l’assunzione a tempo indeterminato sembra essere ormai solo una chimera, un bel sogno relegato nel passato. Allora, quello che conviene fare per sapere come muoversi consapevolmente nella giungla del lavoro è imparare a conoscere le forme di lavoro più diffuse (disoccupazione permettendo): contratti a progetto, oggi vi presenteremo questi.
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Conosciuti anche come contratti di collaborazione per programma o, appunto, progetto, o anche abbreviati in co.co.pro., nel nostro paese i contratti a progetto sono regolati dal D. Lgs. n. 276/2003, vale a dire quella che tutti conosciamo sotto il nome di Legge Biagi. Praticamente, vanno a sostituire il vecchio contratto co.co.co. (contratto di collaborazione coordinata e continuativa), dal quale si distinguono principalmente dal momento che prevedono, obbligatoriamente, una forma scritta che indichi esplicitamente:
- in cosa consiste il progetto di riferimento, quindi anche il programma di lavoro (ed eventualmente, delle sue fasi);
- la durata determinata o determinabile di suddetto progetto;
- la retribuzione corrisposta (e i criteri che la determinano, in relazione al progetto stesso);
- i tempi e le modalità del pagamento nonché degli eventuali rimborsi spese previsti;
- le modalità del coordinamento tra lavoratore e datore di lavoro, anche in termini temporali;
- le misure di tutela della salute e della sicurezza del lavoratore.
COSA SONO
Un ibrido. I contratti a progetto, in effetti, sono una forma di lavoro autonomo: secondo l’articolo 61-69 del D.Lgs.276/03, il “collaboratore a progetto” non va considerato un lavoratore dipendente. Precisamente, i progetti di lavoro devono essere «determinati dal committente e gestiti autonomamente dal collaboratore in funzione del risultato, nel rispetto del coordinamento con la organizzazione del committente e indipendentemente dal tempo impiegato per l’esecuzione della attività lavorativa». Ma, in definitiva, presentano alcune sfumature di impiego “subordinato”, in particolare per quanto concerne la gestione dei tempi.
IL LATO NEGATIVO
Spesso, questo tipo di collaborazione, finisce col coprire veri e propri rapporti di lavoro dipendente a tutti gli effetti, permettendo ai datori di avvalersi di un costo del lavoro ridotto (proprio perché non deve pagare tutte le spese legate alle figure lavorative “dipendenti”). Se da una parte il collaboratore dovrebbe essere libero di portare avanti le proprie mansioni senza sottostare al potere direttivo e disciplinare del datore, è altresì vero che la sua autonomia risulta facilmente limitata. Infatti, per forza di cose, si vede costretto ad agire all’interno del ciclo produttivo e dell’organizzazione aziendale, nonché a coordinare la propria attività ai tempi di lavoro e alle necessità del committente/datore.
Inoltre:
- non esistono limiti alla successione dei contratti a progetto (vale a dire che il datore può continuare ad avvalersi dell’operato del collaboratore anche a lungo termine, senza mai essere obbligato a fargli un contratto da dipendente);
- il datore di lavoro ha ampia libertà di scelta nel di fissare il compenso da corrispondere al progetto, sulla base delle proprie valutazioni (non deve esserci necessariamente corrispondenza a quanto guadagna un lavoratore subordinato che svolge le stesse mansioni);
- in caso di gravidanza, malattia o infortunio, il rapporto di lavoro viene semplicemente sospeso (ovvero non retribuito). La malattia, va da sé, è completamente a carico del lavoratore/collaboratore.
VANTAGGI:
…ce ne sono? Beh, diciamo la possibilità di variare, di scegliere progetti di proprio interesse e gestire, per quanto possibile, il tempo in modo autonomo. Fatto sta che, in tempi di crisi, mancanza di lavoro e retribuzioni ridotte all’osso, non sempre questi vantaggi saltano facilmente all’occhio.
Autore: Redazione di Mondolavoro.it
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