Parliamo tricolore
Per facilitare la comprensione di questa sintagma oscuro, cerchiamo di dare una prima definizione: possiamo identificare l’Employer Branding come delle strategie di recruiting marketing. Oh no! Siamo di nuovo caduti nell’inglese! Riproviamo: l’obiettivo è quello di fornire una presentazione accattivante della propria azienda, facendo emergere i suoi pregi e il suo valore, in modo da renderla attraente per i potenziali dipendenti. Esistono ovviamente diversi nomi tutti inglesi per definire i passaggi di questa catena pubblicitaria, che metteremo di seguito un po’ per sorridere: employer of choice, candidate attraction e employee retention.
L’importanza delle prime impressioni
Proprio come i primi appuntamenti al buio, la cosa essenziale è quella di presentarsi al meglio. Proviamo a intendere l’Employer Branding come un processo di selezione del personale ma fatto al contrario: cioè, non siete voi i candidati che devono superare il colloquio. Sono le aziende che si mettono l’abito buono e infiorettano il curriculum vitae per fare colpo su di voi.
L’immagine quindi è tutto per distinguersi dai numerosi competitor che si litigano i professionisti sul mercato del lavoro.
In che cosa consiste?
Nella pratica, si considera un’azienda più come un brand che come una macchina produttiva. E quando si parla di brand, subito si passa alla comunicazione. Questa disciplina in maniera teorica ha le sue fondamenta su concetti sfuggenti – e ancora una volta inglesi – come brand image, brand identity – un sacco di brand -. Tutti però che indicano chiaramente il fine ultimo: fare marketing aziendale.
La domanda da cui partire è: perché scegliere la mia azienda?
Ha un’atmosfera friendly – ormai non lo molliamo più sto inglese – in cui i dipendenti si sentono più a casa che in ufficio? I valori guida che animano l’impresa sono condivisibili e accattivanti? Oppure, se si è meno ambientalisti e più degli squali ambiziosi, l’azienda è il giusto trampolino di lancio per esser competitivi sul mercato?
Tutte belle domande, alle quali una compagnia, se vuole dotarsi di un team fortissimo e competente, deve saper rispondere non solo bene, ma anche in maniera convincente. O meglio, più convincente degli altri.
Magari proponendo delle opportunità lavorative differenti, implementando le strategie di marketing e branding: ogni cosa è lecita nella guerra del recruiting. Mettendo sullo stesso piano il potenziale dipendente con un possibile cliente.
Sapersi vendere: questa è la regola
In questo processo di trucco e parrucco aziendale, dove si cerca di capire se la permanente possa attirare oppure respingere definitivamente il corteggiato, la pianificazione è tutto.
Esistono ovviamente delle employer branding strategies, che si giocano spesso sulla presenza massiccia alle fiere del lavoro, agli incontri tra aziende (per chi sentisse nostalgia dell’inglese: Carreer Fair e Job Meeting). Non si deve poi tralasciare la creazione di campagne di comunicazione sul web, attraverso i social e le newsletter. Ancora è valida l’opzione più “vecchio stile”: contattare gli uffici stampa, comparire su diverse riviste di settore con articoli e interviste e poi comparire negli spazi pubblicitari appositi.
Non esser tirchi
È una buona strategia anche quello di proporsi come sponsor di tutte quelle iniziative legate al proprio target di riferimento. Non essendo parchi e contribuendo anzi a realizzare e diffondere gadget, organizzare feste e convegni per riunire i candidati di interesse per l’azienda.
Come faccio a sapere se la mia strategia funziona?
Come sempre avviene in questi casi, chi semina bene raccoglie buoni frutti. Si tratta di un investimento e, in tal senso, i riscontri dell’effettivo successo dell’Employer Branding arriveranno col tempo. In ogni caso, inizialmente si può già avere una stima dal numero di candidature presentate e quante, tra queste, siano realmente adatte al profilo ricercato.
Employer Positioning Survey
Uno strumento che può aiutare a misurare l’efficacia di una strategia, in quanto valuta la posizione della brand image focalizzandosi su tre target: i neolaurati senza esperienza lavorativa, i giovani che hanno alle spalle almeno tre anni di lavoro e infine, quelli che sono già rodati (di nuovo, per i veri english: Recent Graduates, Young Professionals e Senior Professionals).
Employer branding: il mostro a due teste
Ora che abbiamo preso confindenza con questa figura mitologica che mischia marketing e collocamento, possiamo scendere più nel dettaglio. Possiamo infatti fare una distinzione tra due tipologie di Employer Branding: quello interno e quello esterno.
Ok, fin qui sembra facile
Per “interno” si intendono tutte quelle operazioni di fidelizzazione dei dipendenti già inseriti nell’azienda. Le aziende dovranno valorizzare la forza lavoro, apprezzandone le azioni e le competenze. Perché, prima di tutto, i lavoratori sono persone e hanno bisogno di non sentirsi scontate.
Torniano quindi all’Employer branding esterno: quello che si svolge per attrarre nuovi dipendenti tra i laureandi o i neolaureati che potrebbero esser utili per dare nuova linfa vitale a un’azienda. Importante quindi presentarsi come un luogo di crescita e motivante, non come un banale luogo in cui si svolge un’attività.
Le fasi di una strategia di Employer Branding
Possiamo riassumere un’operazione efficace come strutturata in 4 step: quella di analisi, della scelta di un messaggio, di comunicazione e infine, di monitoraggio.
Prima mossa quindi, è quella di capire come l’azienda venga già percepita all’esterno: come viene vista? L’immagine aziendale è in linea con i suoi valori?
Una volta capito questo, si può pensare a quale messaggio si vuole inviare. Le analisi svolte sono un’ottima base per definire una presentazione del brand orientata al target di interesse.
Sappiamo quindi cosa dire: ora c’è da occuparsi del come. Ovvero la pianificazione di tutte le operazioni di marketing necessarie a colpire sia i lavoratori già attivi in azienda, sia quelli che dovranno diventarlo.
Infine, arriva la parte meno simpatica, ma più concreta: controllare attraverso diversi paremetri, quali siano le ricadute effettive di tutto il lavoro di comunicazione messo in atto, confrontandosi con i competitor.
Employer branding e web reputation vanno a braccetto
Abbiamo capito che l’Employer Branding è un modo articolato per dire: dare visibilità al proprio marchio. E se si intende questo processo esattamente come qualsiasi altra campagna di comunicazione, ecco che è evidente il legame con un altro concetto sempre più rilevante sul mercato del lavoro: la web reputation.
Cioè, sempre per tradurre in italiano, la reputazione di un’azienda su internet. Quale identità mostra una compagnia quando qualcuno la digita su un motore di ricerca? E’ coerente all’idea che si voleva trasmettere?
Se la risposta è sì, allora tutto è in discesa nel momento di implementare le varie strategie di Employer branding. Se invece è no, è il momento di una bella operazione di restauro. La promozione del brand non può infatti prescindere dalla reputazione di cui gode ancor prima l’azienda. E su cosa si basa? Innanzitutto sui contenuti che un’impresa ha pubblicato online, i feedback raccolti dai clienti, la gestione dei social network.
Questi ultimi sono il vero banco di prova su cui si gioca la web reputation: lo spazio entro cui gli utenti si incontrano per scambiarsi le opinioni sul brand, sui prodotti e i servizi dell’azienda. Tutti i social sono uguali per raggiungere lo scopo? Non proprio. Quando si parla di Employer Branding, la piattaforma prediletta è una: Linkedin. Questo è il punto di partenza per il lancio di molte aziende, dove tutti i candidati prima o poi gettano un occhio per capire di che pasta è fatta una compagnia.
Care aziende, ora che avete percepito il valore e l’importanza di questo investimento, siete pronte a potenziare la vostra immagine?
Simonetta Spissu