Licenziamento per giusta causa o illegittimo? E’ la prima cosa che viene da chiedersi quando si viene lasciati a casa dal lavoro. Vediamo quindi di capire di cosa si tratta, quali sono le caratteristiche e le differenze tra le due situazioni e quali sono i diritti che spettano ai dipendenti, ma anche ai datori di lavoro.
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Cos’è il licenziamento per giusta causa
Ci sono situazioni in cui il datore di lavoro può recedere dal rapporto di lavoro, sia a tempo determinato sia a tempo indeterminato, quando c’è una giusta causa così grave da non consentire la prosecuzione del rapporto di lavoro nemmeno in via provvisoria. In questo caso, secondo l’art. 2119 del Codice Civile, il licenziamento può essere intimato senza preavviso.
I motivi per il licenziamento per giusta causa
Ma quali possono essere i motivi tanto gravi che portano ad una rottura immediata del rapporto di lavoro? In via generica, possiamo dire che potrebbe costituire un valido motivo per il licenziamento ogni situazione che compromette irrimediabilmente il rapporto di fiducia tra il lavoratore e il datore di lavoro. Alcuni esempi specifici sono:
- assenteismo, cioè quando il dipendente non si presenta sul posto di lavoro senza dare giustificazioni per diversi giorni;
- falsa malattia e falso infortunio;
- ripetuta assenza alla visita fiscale;
- rifiuto di riprendere il lavoro dopo un’assenza per malattia;
- lavorare per un’altra azienda durante l’assenza dal lavoro per malattia, soprattutto se questa attività pregiudica la guarigione e quindi un rapido ritorno al lavoro;
- uso improprio dei permessi concessi dalla legge 104;
- falsa timbratura, ad esempio la falsificazione del cartellino presenze e orari o del badge aziendale;
- rifiuto ingiustificato e reiterato di eseguire una prestazione lavorativa;
- rifiuto ingiustificato di trasferirsi in un’altra sede lavorativa o in un’altra filiale dell’azienda, ovviamente se il trasferimento è legittimo;
- violazione del patto di non concorrenza e dell’obbligo di fedeltà, ad esempio con un secondo lavoro in un’azienda concorrente e quindi in contrasto con gli interessi dell’azienda;
- accertamento di una condotta extra lavorativa penalmente rilevante, che può far venire meno il rapporto di fiducia e che può pregiudicare l’immagine dell’azienda: ne è un esempio una condanna per appropriazione indebita per un dipendente bancario;
- diffamazione dell’azienda e dei suoi prodotti;
- insubordinazione con reazione fisica o verbale;
- illeciti accertati a danno del patrimonio aziendale;
- furti o sabotaggi in azienda di macchinari, attrezzature e materiale vario
Motivi per cui non è possibile licenziare per giusta causa
Ci sono anche delle situazioni in cui non è possibile per un datore di lavoro licenziare per giusta causa. Vediamone alcuni:
- quando la mancanza grave del dipendente viene provocata da una mancanza del datore di lavoro;
- per cessazione delle attività dell’azienda o per fallimento dell’imprenditore;
- in caso di liquidazione coatta amministrativa dell’imprenditore;
- per incapacità del lavoratore.
Abbiamo scelto di proporvi un testo di approfondimento che offre una panoramica della normativa in tema di licenziamenti nei rapporti di lavoro privato. Il libro spiega come distinguere il licenziamento dalle ipotesi affini, quale forma deve rivestire e per quali motivi si può legittimamente licenziare, con quale procedura e con quale tempistica; ma spiega anche chiaramente come impugnare un licenziamento, attraverso quali adempimenti da compiere prima del giudizio e come evitare le decadenze di legge, come impostare un ricorso avverso un licenziamento illegittimo e quali sono le caratteristiche del rito da seguire.
Come si svolge l’accertamento del licenziamento per giusta causa
I motivi del licenziamento per giusta causa devono sempre essere accertati, a tutela del dipendente. Ciò avviene tramite una valutazione approfondita relativa alla sussistenza dell’impedimento alla prosecuzione del rapporto di lavoro, che analizza tutti gli aspetti del rapporto tra le due parti ed entrambe le posizioni delle parti coinvolte, oltre alle circostanze e ai motivi che hanno portato alla attuale situazione.
In particolar modo, il giudice deve valutare la gravità dell’infrazione commessa, la sua portata oggettiva e soggettiva, l’intenzionalità, le circostanze in cui è stata commessa e la proporzionalità tra il fatto commesso e la sanzione inflitta.
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Licenziamento per giusta causa o licenziamento per giustificato motivo?
La differenza tra questi due termini può apparire irrilevanti, ma indicano due situazioni diverse che non vanno confuse, anzi tre, dal momento che il giustificato motivo può essere oggettivo o soggettivo.
Le caratteristiche del licenziamento per giusta causa le abbiamo già viste. Il licenziamento per giustificato motivo soggettivo rientra, come il licenziamento per giusta causa, tra le sanzioni disciplinari che possono essere comminate al dipendente. Si tratta infatti di provvedimenti disciplinari che vengono applicati in base alla condotta scorretta del dipendente.
La differenza tra il licenziamento per giusta causa e quello per giustificato motivo soggettivo risiede nel motivo che giustifica il provvedimento. Nel caso di licenziamento con giusta causa, infatti, il fatto è tanto grave da non consentire il proseguimento del rapporto di lavoro nemmeno in via provvisoria. Il licenziamento è quindi con effetto immediato.
Nel caso del licenziamento con giustificato motivo soggettivo, invece, l’allontanamento dal posto di lavoro è sempre dovuto ad una mancanza del dipendente, ma tra la data della comunicazione del provvedimento e l’ultimo giorno lavorativo deve trascorrere un certo periodo di tempo stabilito dal contratto collettivo. Questo periodo, chiamato “periodo di preavviso”, consente al lavoratore di percepire una retribuzione mentre cerca una nuova occupazione.
Se l’azienda non ha intenzione di concedere all’ormai ex dipendente il periodo di preavviso ha comunque l’obbligo di corrispondere un’indennità sostitutiva pari alla retribuzione a cui avrebbe avuto diritto il dipendente durante il periodo di preavviso.
Licenziamento per giustificato motivo oggettivo, di cosa si tratta?
Si parla di giustificato motivo oggettivo quando il licenziamento non è dovuto alla condotta del dipendente ma dipende dall’organizzazione del lavoro in azienda. Ne consegue che il licenziamento per giustificato motivo oggettivo può riguardare anche più di un dipendente, ma non deve comunque essere confuso con il licenziamento collettivo.
Le situazioni in cui si può parlare di giustificato motivo oggettivo sono, ad esempio, la crisi dell’azienda per cui si lavora, il venir meno delle mansioni a cui è assegnato il dipendente in questione senza che sia possibile il suo ricollocamento oppure la cessazione dell’attività dell’impresa.
L’iter da seguire per il licenziamento disciplinare
Prima di arrivare al licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo soggettivo il datore di lavoro deve seguire un’apposita procedura, che consiste in alcuni step principali, Per prima cosa, perchè il licenziamento sia legittimo è necessario che il codice disciplinare sia affisso in azienda in un luogo ben visibile e facilmente accessibile a tutti i dipendenti. In secondo luogo, deve avere luogo la contestazione dell’addebito al dipendente, che deve avere anche un termine (di solito 5 giorni) entro il quale presentare le proprie giustificazioni. Se il dipendente ne fa richiesta deve poi svolgersi l’audizione difensiva, seguita dall’accoglimento delle giustificazioni del dipendente oppure dall’intimazione del licenziamento.
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Licenziamento illegittimo, cosa cambia dal 2019
I lavoratori, come è ovvio, sono tutelati in caso di licenziamento illegittimo, ma le tutele previste dal Jobs Act sono state oggetto di due importanti interventi operati dal Decreto Dignità e dalla Corte Costituzionale, che è stata chiamata a verificare la legittimità della normativa sulle cosiddette tutele crescenti.
Cos’è il Jobs Act e cosa prevede in caso di licenziamento illegittimo
Nel 2015 l’Italia ha visto un’importante riforma del diritto del lavoro, che prende il nome di Jobs Act. Questo testo si compone di numerosi decreti che intervengono su molti aspetti del diritto del lavoro, compreso il caso del licenziamento illegittimo. A questo riguardo, il Jobs Act ha introdotto il cosiddetto contratto a tutele crescenti.
Cosa succedeva prima del Jobs Act in caso di licenziamento illegittimo
Prima del 2015, nelle imprese con meno di 15 dipendenti, il licenziamento illegittimo faceva ottenere all’ormai ex dipendente un risarcimento del danno fino ad un massimo di 6 mensilità, cifra che poteva aumentare solo per dipendenti con molti anni di servizio alle spalle.
Nelle aziende con più di 15 dipendenti, invece, si applicava l’articolo 18, che prevedeva una tutela differente in base al motivo del licenziamento illegittimo. Il risarcimento andava da un semplice risarcimento del danno al reintegro nel posto di lavoro, con in più il pagamento di tutte le mensilità che si sarebbero percepite nel frattempo.
Cosa è cambiato con il Jobs Act e il contratto a tutele crescenti
Il contratto a tutele crescenti introdotto dal Jobs Act, sempre in caso di licenziamento illegittimo, prevedeva indennità differenti a seconda del tipo di azienda coinvolta. Le imprese con più di 15 dipendenti erano tenute al pagamento di una indennità di 2 mensilità per ogni anno di servizio. Si andava da un minimo di 4 a un massimo di 24 mensilità. Per le aziende con meno di 15 dipendenti, invece, l’indennità prevista era pari ad una mensilità per ogni anno di anzianità, da un minimo di 2 ad un massimo di 6 mensilità.
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Licenziamento illegittimo, cosa prevede il Decreto Dignità
Con il Decreto Dignità (DL n. 87/2018) sono stati semplicemente modificati al rialzo il tetto minimo e il tetto massimo di mensilità che poteva percepire chi risulta licenziato in maniera illegittima. Da un minimo di 4 ad un massimo di 24 mensilità si passa infatti ad un minimo di 6 fino ad un massimo di 36 mensilità. Questa modifica ha quindi influito su chi ha pochi o molti anni di servizio, mentre per gli altri rimane tutto invariato.
Cosa cambia con la decisione della Corte Costituzionale
Una sentenza della Corte Costituzionale emessa alla fine del 2018 ha dichiarato in parte illegittime le tutele offerte dal Jobs Act.
Il Jobs Act era stato oggetto di critiche perchè si riteneva che avesse indebolito le tutele dei dipendenti licenziati in maniera illegittima, obbligando le aziende unicamente al pagamento di somme abbastanza esigue in caso di sconfitta davanti al giudice del lavoro.
La sentenza ha dichiarato il Jobs Act contrario alla Costituzione proprio per questo motivo, in particolare perchè il calcolo dell’indennizzo per licenziamento illegittimo si basa unicamente sul criterio dell’anzianità di servizio.
Secondo i giudici della consulta, infatti, ci sono altri criteri di cui bisogna tenere conto, tra cui possiamo citare, ad esempio, le dimensioni dell’azienda, le condizioni e il comportamento delle parti.
La Corte Costituzionale ha quindi cancellato la parte relativa alle tutele crescenti, lasciando solo i tetti di minimo 6 e massimo 36 mensilità. Sarà il giudice a dover valutare tutti i fattori in gioco e a decidere quale sia il numero di mensilità da riconoscere al lavoratore.
Se il licenziamento per motivi disciplinari si dimostra illegittimo, il lavoratore può ottenere la reintegrazione nel posto di lavoro e fino a 12 mensilità.
Cosa succede in caso di licenziamento discriminatorio, nullo o ritorsivo?
Nella casistica dei licenziamenti illegittimi ci sono tre situazioni che prevedono tutele particolari. Si tratta dei licenziamenti discriminatori, nulli o ritorsivi, che hanno delle caratteristiche precise:
- si parla di licenziamento discriminatorio quando, al di là del motivo formale addotto dall’azienda, il licenziamento dipende da razza, religione, colore della pelle, orientamento sessuale e così via;
- il licenziamento ritorsivo si verifica quando un dipendente ha esercitato un suo legittimo diritto e per questo viene licenziato dall’azienda. Un esempio? Quando un dipendente contesta un caso di mobbing e per questo viene allontanato dal lavoro;
- si ha infine un licenziamento nullo quando questo viene comunicato in un periodo nel quale la legge vieta il licenziamento, ad esempio durante la gravidanza di una dipendente oppure se il lavoratore è in malattia.
In tutti questi casi il lavoratore può ottenere la reintegrazione nel posto di lavoro. Ha diritto inoltre al pagamento di tutti gli stipendi che avrebbe percepito se non fosse stato licenziato, fino alla riammissione in servizio. Su questa somma l’azienda dovrà inoltre pagare i contributi previdenziali ed assistenziali ad Inps ed Inail.